Ai tempi miei …
Non c’era un
luogo ben preciso per lo svago e il divertimento perché esso si creava
dovunque, dalla campagna all’aia di casa, dalle cerimonie alle feste di
paese.
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E come organizzavate questi divertimenti in campagna?
Beh, non si aveva bisogno
di grande organizzazione, lo svago e il divertimento arrivavano con
naturalezza e semplicità, di solito alla fine di ogni faticoso lavoro, come
la mietitura, la vendemmia o la spannocchiatura. Nell’aia, che come già sai
era lo spiazzo di terra battuta davanti alla nostra casa, si imbandiva una
lunga tavolata e si mangiava quel po’ che avevamo a disposizione
nell’allegria, insieme anche ad altre famiglie, che venivano ad aiutarci,
per poi in cambio essere aiutate negli stessi lavori dalla mia famiglia. Per
la cena, le donne di famiglia, sulla stessa tavolata molto lunga, spalmavano
una polenta di granturco. A volte, per tirare un po’ su il morale da quella
vita di stenti vi mettevano sopra anche del lardo o del formaggio
grattugiato. Oh, in quel momento vi era baldoria generale per accaparrarsi
le porzioni in cui di grasso o di formaggio ve ne era di più! Quando si
condivideva e ci si riuniva così, tutti quanti si sentivano onorati, quasi
ricchi, ma la vera ricchezza era in realtà quella che avevamo nel cuore: la
gioia e l’amore fraterno. Terminata la cena, bastavano un bicchier di vino
in più, il mio organetto, un cembalo o un triangolo che facevano esplodere
nell’aria la musica invitando a ballare e a cantare per trasformare l’aia in
una sala da ballo sotto un meraviglioso tetto stellato.
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Ma nonno,
cosa suonavi? Cosa si ballava?
I canti erano stornelli
semplici, armoniosi e … rusticamente melodiosi! Erano lunghi e ricchi di
ritmo, tanto da far dimenticare le fatiche e la povertà in cui vivevamo.
Questi momenti di divertimento per noi erano come un premio per le fatiche e
gli stenti che riuscivamo a superare quotidianamente. Io con il mio caro
amico organetto suonavo il valzer, la polka, la mazurka, il saltarello o il
tretticarello ed ero tanto contento perché riuscivo a portare un sorriso nei
visi solcati dal sudore, dalla tristezza e dalle preoccupazioni. Dopo tanto
ballo scatenato sopraggiungeva la stanchezza e allora invitavo alla calma
liberando dolci note dal mio organetto e subito si levavano in coro i canti
romantici di noi giovanotti. Era questo un momento in cui noi ci sedevamo
accanto alle fanciulle per qualche dichiarazione amorosa o per scambiarsi i
propri sentimenti. Con la luna alta nel cielo diveniva uno spettacolo
suggestivo! Poteva accadere talvolta che qualche giovanotto potesse fare
qualche carezza non ben accetta e in cambio riceveva un ceffone in faccia.
Quello era il momento giusto per far ripartire l’organetto con uno sfottò
musicale accompagnato da risate e battute dei presenti. Se invece il
sentimento amoroso era corrisposto si poteva giungere al fidanzamento e
quindi al matrimonio.
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Nonno, a
proposito, come avvenivano le feste dei matrimoni?
Anche questo era un momento
di divertimento e di svago. La festa si svolgeva dopo la cerimonia, quando
ci si recava al pranzo sempre nell’aia, o a volte sulla grande terrazza.
Anche qui non mancava mai la nostra musica contadina accompagnata dal mio
inseparabile organetto e cantata con gli immancabili stornelli. A sera, gli
sposi, dopo il banchetto, andavano in casa e noi giovanotti ci preparavamo
per la serenata. Ci sistemavamo davanti alla casa ad una distanza da cui
credevamo l’acustica fosse migliore. Trovato il posto, ovviamente la musica
si svolgeva sempre nello stesso modo: io suonavo l’organetto e gli altri
cantavano stornelli. Se gli sposi gradivano la serenata, accendevano la luce
e così noi continuavamo a suonare e a cantare ancora più forte con tanta
allegria. Però anche in questi momenti di festa non mancavano i dispetti: le
famiglie che non accettavano il matrimonio o famiglie che erano in lite con
quelle degli sposi, andavano sotto la casa dei due per suonare e cantare
stornelli piuttosto cattivi e ingiuriosi. Ammetto che anch’io ho suonato per
alcune “serenate dispettose”, ma … suonator non porta pena!
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Ma nonno,
per caso ricordi qualche stornello?
Gli stornelli erano spesso
inventati al momento, ma poi, se piacevano, potevano essere cantati da altri
in occasioni diverse e, una volta diffusosi, poter essere stampati anche su
delle sorte di “libri dei canti”. Io me ne ricordo uno:
“Voglio cantare uno
stornello a prima lista
me lo voglio cavare
dalla mia testa
chi lascia il primo
amor l’inverno acquista”
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Ma c’erano
altri momenti di festa?
I maggiori momenti di
divertimento erano legati a motivi religiosi, come le festicciole per
matrimoni, cresime/comunioni e battesimi, o anche lo stesso giorno di
Domenica. Momenti molto importanti erano anche il Natale e la Pasqua.
Il Natale era una festa
attesa da tutti i membri della famiglia che oltre all’importanza dell’evento
religioso, molto sentito da noi, era anche un occasione per mangiare cibi un
po’ più sostanziosi e proprio in questa ricorrenza si vedevano i visi di
tutti i familiari, segnati dalla sofferenza e dagli stenti, distendersi in
gioiosi sorrisi e allegria, evento raro, perché a quel tempo la fame era
tanta. Il giorno di Natale, dopo aver mangiato gioiosamente tutti insieme
nella grande cucina, gli uomini scendevano nella stalla, il luogo più caldo
della casa, che ti ho già descritto, per giocare a carte e per bere qualche
bicchiere di vino in allegria. Le donne, dopo aver messo in ordine la
cucina, si sedevano davanti al gran camino a sferruzzare chiacchierando,
mentre i bambini si divertivano con alcuni semplici giochi. Noi, da piccoli,
a Natale giocavamo a “cruschella”. Questo gioco era organizzato dai fratelli
più grandi che, dopo aver fatto andare noi più piccoli in un’altra stanza,
preparavano alcuni mucchietti di crusca e in alcuni inserivano piccoli e
poveri regalini, come noci o mandorle. Fattici rientrare nella stanza, ad
ognuno di noi facevano scegliere un mucchietto di crusca e i fortunati che
in esso trovavano della frutta secca la ricevevano come regalo natalizio.
Poi ci riunivamo intorno al fuoco per ascoltare le immancabili fiabe della
nonna, che solitamente narravano il viaggio di Maria e Giuseppe e la nascita
del Bambin Gesù, il tutto con l'aggiunta di molta fantasia semplice e
genuina di quel tempo.Ci piaceva molto ascoltare storie perché ci facevano
sognare e ci portavano fuori da quella fredda e crudele realtà. Anche la
Pasqua per noi aveva lo stesso significato: un momento per mangiare un po’
di più, svagarsi, gioire e stare insieme. A Pasqua però, per divertirci
utilizzavamo le uova: in paese, nelle piazze, si organizzavano vere e
proprie gare di “scoccetta” e “cëmënella”. Il primo gioco consisteva nel
colpire con un uovo sodo quello di un altro avversario. Chi possedeva uova
dal guscio duro, riusciva a rompere e intascare quelle degli avversari.
“Cëmënella” era sempre svolto con le uova. Esse venivano fatte rotolare
lungo una piccola china. L’uovo che arrivava più lontano permetteva a chi lo
possedeva di prendere come premio le altre uova che avevano “partecipato”
alla gara. In questi giochi d’altri tempi vincere era importante, ma non per
superbia, bensì per portare a casa un po’ di cibo in più per sfamare la
famiglia.
… Ora però facciamo una
pausa, davanti al bel fuocherello beviamo un orzo caldo e ci riposiamo un
attimo. Mentre sorseggiamo, il nonno e ed io ci scambiamo sorrisi: lui è
felice di condividere con me questa parte del suo vissuto ed io sono
contento di ricevere in regalo questo pezzo della sua vita per me
sconosciuta. Anche oggi il nonno sembra affaticato, ma felice di ricordare
quei tempi, dove si era circondati dall’amarezza, ma nel cuore si aveva lo
stesso quell’allegria e quell’amore che, nonostante tutto, rendevano la vita
più luminosa e meno triste di quel che era.
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Nonno, vi
divertivate solo in queste ricorrenze?
Beh, esistevano anche altre
ricorrenze più o meno importanti, come S. Antonio, la Pasquella, ovvero il
primo Martedì dopo Pasqua, e il Carnevale. Anche queste tre feste erano
occasioni buone per riempirsi la pancia sempre vuota e si svolgevano nelle
vie e nelle piazze del paese. Per la ricorrenza di S. Antonio e di
Pasquella, io ed altri giravamo per le case pregando per le anime sante e
cantando, con noi portavamo un cestino per prendere le offerte di cibo.
Certo, c’era anche chi ci cacciava via in malo modo, specialmente a
Pasquella da parte di chi aveva dato cibo ai poveri per S. Antonio, ma la
maggior parte delle volte il buon cuore della gente ci permetteva di
raccattare qualcosa per sfamare le nostre numerose famiglie. A Carnevale vi
era una festicciola in paese, dove si beveva vino, si mangiavano ravioli con
diverse farciture e castagnole, poi, a pancia piena, io con l’organetto
suonavo e gli altri cantavano e ballavano. Si raccontavano anche
barzellette, ridendo allegramente. Esistevano anche altre feste di paese,
sempre però per motivi religiosi. Nel mio paese, Capradosso, era importante
anche la festa dell’Ascensione, nome, oltre che della ricorrenza, del monte
sotto cui abitavamo. Con una processione ci si recava al Santuario di
Montemisio per prendere l’immagine della Madonna e portarla fin su alla
vetta del monte, dove la si poneva in una piccola chiesa. La festa avveniva
nella solita maniera: dopo la funzione religiosa, ci si riempiva lo stomaco
con il pesce fritto e la porchetta che bancarelle vendevano e poi si
suonava, cantava e ballava. Qui però erano molti quelli che sapevano suonare
l’organetto, e ognuno di noi, compreso me, cercava di dare il meglio di sé
per cercare di essere più bravo degli altri, ma alla fine ci si divertiva
tutti insieme.
(Il nonno mi mostra una foto scattata sul Monte Ascensione, mentre suona
allegramente il suo caro organetto e vicino c’è un suo amico che canta
stornelli, seduti sul prato che, anche se la foto sia in bianco e nero, si
intuisce sia verde! Era il 1932,
quando nonno Checco aveva 18 anni).
Tuttavia, non servivano
vere e proprie feste per svagarsi. Bastava, per noi ragazzi e adulti,
riunirsi nella stalla a giocare a carte o suonare e cantare. Sceglievamo la
stalla perché, come già saprai, era il luogo più caldo della casa perché
riscaldato dal fiato degli animali, ma anche perché era impossibile andare
sui piani superiori della casa. Ballando e ballando, si rischiava di far
crollare il solaio! La Domenica, invece, dopo pranzo, si andava sulle strade
collinari e si giocava a “ruzzëca” (ruzzola). Questo gioco particolare
consisteva nel far rotolare delle forme di formaggio stagionato per un
percorso con varie curve e pendenze. Vinceva chi, nel tirare la forma,
riusciva con il minor numero di tiri a farla arrivare più lontano, senza
però farla uscire dal percorso stabilito. Il premio per il vincitore era
come gli altri giochi le forme di formaggio degli altri partecipanti. Si
potevano apportare delle modifiche alla propria ruzzola, ovvero avvolgerle
intorno un filo che alla partenza veniva tirato per darle più velocità.
Inoltre quest’ultima, sulle strade di quel tempo di terra battuta e sassi,
si poteva rompere facilmente ed andava sprecata. Così io ed altri ci
costruimmo ruzzole di legno, molto più resistenti. Quando si perdeva, al
vincitore si dava una forma di formaggio intatta. Anche questo gioco non
serviva solo per divertirsi, ma era una buona occasione per portare a casa
più cibo. Idem per i ragazzini: mio figlio, negli anni ’50 si divertiva con
i coetanei a giocare a “bëttù” (bottoni), in cui vinceva chi riusciva a
tirare il suo bottone più vicino ad un muretto, ottenendo come premio i
bottoni degli altri. I ragazzini ci giocavano spesso e ovunque si
trovassero, bastava un muro di cemento. Mia moglie si inquietava molto
quando vedeva nostro figlio rimasto senza bottoni sulle camicie e sui
calzoni, ma quando vinceva e ne portava di nuovi era contenta.
Arrivati a questo punto,
rammento anche un altro luogo: il torrente. Per noi era un momento riposante
e rinfrescante dove andavamo talvolta stanchi e impolverati per il lavoro.
Qui potevamo farci un bagno, mentre i nostri bambini con un gran vociare si
divertivano nel catturare i pesci, intrappolandoli in ceste di vimini.
Il
nonno finisce il suo racconto, credo che mi abbia detto tutto ciò che la sua
mente gli ha proiettato del suo passato come un gran bel film a colori e non
in bianco e nero, pellicola usata in quell’epoca.
Sono rimasto molto
colpito dai racconti del nonno, scoprendo che svago e lavoro si
intrecciavano tra loro. Il lavoro, anche se faticoso ed estenuante, si
concludeva sempre con gioia e allegria, ma anche le feste avevano sempre un
obbiettivo utile al bene comune che, a causa della povertà in cui vivevamo,
era sempre molto poco.
Questo suo bel racconto
davanti al caminetto, come un film, si è concluso con una divertente e
bellissima sigla finale. Il nonno ha tirato fuori dall’armadio il suo caro
amico organetto che da ormai troppi anni lo aspettava, che non è quello
della foto in bianco e nero, ma è quello più nuovo che aveva comperato a
Loreto nel suo viaggio di nozze. Poi, a causa di dolorosi lutti familiari,
lo aveva chiuso in un armadio e quasi dimenticato perché quel piacere
rievocava i dispiaceri che molte volte la vita riserva. Ma è accaduto
qualcosa di meraviglioso e inaspettato: il nonno, con la mente e con il
cuore nel passato e l’allegria rivissuta nel suo racconto, ha fatto
echeggiare nell’aria una bellissima e armoniosa musica. Bravissimo a
suonare, nonostante i suoi quasi 99 anni.
Giorgio Sciamanna
Casa S. Maria Via Roccabrignola, 1 63078 Pagliare
di Spinetoli AP
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